lunedì 29 marzo 2010

Motivatore o non motivatore?



Voglio anch’io un motivatore. Mi dovrà convincere che posso arrivare dove voglio. Magari proverò a chiedergli di utilizzare le sue competenze per motivarmi ad alzarmi all’alba dopo una giornata passata a lavorare fino a notte inoltrata. Oppure a convincermi che, prima o poi, anch’io ce la farò a diventare ricca e famosa che, oggi, sembra l’aspirazione di tutti. Ripensandoci, però, del motivatore non penso di avere bisogno. Sono già dotata di abbastanza senso di responsabilità per rispettare le scadenze del mio lavoro e conciliarle con le esigenze familiari. E’ vero forse metto un po’ da parte quelle personali, ma questo non è mai stato un problema. E, contrariamente alle aspirazioni comuni, non voglio diventare ricca e famosa. Così, piuttosto, se avessi bisogno mi rivolgerei semplicemente a un psicologo che, più che motivarmi, dovrebbe aiutarmi a capire chi sono e cosa voglio.
Il motivatore, in questo momento, va alla grande nello sport. Lì sì che serve, secondo il pensiero generale: la pressione è alta e pure le richieste di allenatori, sponsor, entourage. Quasi come se l’atleta fosse in gara solo con se stesso, piuttosto che con altri atleti che ci mettono il medesimo impegno e la stessa abnegazione. Anche nelle aziende multinazionali e non, abituate a lavorare per obiettivi, è d’uso l’allenamento della mente per il miglioramento delle performance.


Così i motivatori proliferano. Uno di questi, al secolo Daniele Popolizio (già mental coach, che fa più figo, della record woman mondiale dei 200 e dei 400 stile libero, Federica Pellegrini, e della pattinatrice sul ghiaccio,Carolina Kostner, sesta ai Mondiali di Torino dopo essere finita con le terga sul ghiaccio alle Olimpiadi di Vancouver) lo ha assoldato, qualche settimana fa , il presidente della Lazio, Claudio Lotito, spedendolo nel ritiro dove i biancocelesti erano, a loro volta, stati spediti per ritrovare compattezza e tornare alla vittoria. Il ‘motivatore’, in quel caso, è stato respinto da coloro che avrebbe dovuto aiutare.
Secondo lo psicologo Fabio Cola, consulente del Parma dei tempi di Cesare Prandelli: «I calciatori vengono cresciuti solo in funzione dei risultati. Spesso non vanno a scuola, hanno poche relazioni sociali significative. La loro autostima è affidata a un solo parametro: il successo sul campo. Se falliscono vanno in tilt».
A preoccupare in questi meccanismi virtuosi (?), che si tratti di calciatori o altri sportivi, è proprio l’altra faccia della medaglia rappresentata dalla sensazione di fallimento che può attanagliare chi non riesce a vincere nonostante il motivatore. Perché è buona norma ricordare che, mentre nella vita tutti possono vincere nelle piccole e nelle grandi cose a patto di non spostare troppo in là l’obiettivo e di considerare nella giusta luce l’insuccesso, nelle competizioni sportive a vincere è uno e uno soltanto.

Ben vengano, quindi, motivatori e ancora di più psicologi sportivi (nel calcio giovanile la presenza di uno psicologo nello staff societario è obbligatoria) se il loro ruolo è quello di aiutare a crescere, a concentrarsi, a non soccombere alla paura di vincere, tecnicamente ‘nikefobia’ dalla parola greca nike che significa vittoria. Ma gli stessi dovrebbero, soprattutto, trasmettere un concetto molto più importante: l’umanità dei sentimenti, la non perfezione della razza umana, il saper perdere e la forza di rialzarsi e continuare. Perché, come ha riassunto un’altra campionessa del nuoto, Alessia Filippi (seguita anch’essa da Popolizio), inserendosi nel dibattito di questi giorni: «Va bene il motivatore ma prima devono esserci le qualità».

(pubblicato su Eventi di domenica 28 marzo, allegato trimestrale del quotidiano La Sicilia nella sezione 'punti di vista')

sabato 27 marzo 2010

Cricket troppo esotico, i giovani padani della Lega Nord di Desio preferiscono la 'lippa'


All'istituto Prati di Desio, comune della nuova provincia Monza-Brianza, i ragazzini di quarta elementare imparano a giocare a cricket. Dieci settimane consecutive di lezioni nell'ambito della psicomotricità e della multiculturalità in una cittadina dove la comunità pakistana è la più numerosa tra quelle straniere. Insegnanti d'eccezione alcuni pakistani di Desio che hanno proposto il progetto alla scuola dopo aver visto che i bambini italiani chiedevano di giocare con loro nel parco cittadino.

Il sì della scuola, però, ha sollevato un vespaio di polemiche nel Comune a conduzione leghista. Ad insorgere, con tanto di lettera di protesta proveniente da Dès (nome indigeno di Desio), è Fabio Molinari, esponente dei Giovani Padani. «Alla scuola elementare – che ho avuto io stesso la gioia di frequentare – non si sceglie più di raccontare ai bambini le tradizioni della Brianza, di insegnargli la nostra lingua né le nostre ricorrenze. É arrivata bensì la fantastica idea di far cimentare gli alunni nello sport nazionale del Pakistan: il cricket», si lamenta nel blog Desio in Padania, gestito dal Movimento Giovani Padani locale. «Una notizia di cui vergognarsi» perché «vediamo sparire all'orizzonte la nostra cultura». Cultura rappresentata, per esempio, dalla 'lippa', chiarisce subito dopo.

Confesso, da non padana, la mia ignoranza sulla 'lippa'. Me ne dolgo perché sono curiosa di natura e rimedio subito. Anche se ritengo che, come io fino adesso non conoscevo la 'lippa', il giovane leghista non conoscerà di certo il tipico gioco siculo dei 'ciappeddi'. Da cittadina del mondo, però, ho sentito parlare di cricket, ne ho viste sequenze di gioco in qualche film e, recentemente, anche in qualche telegiornale sportivo nazionale. Oltre che averne letto su diversi giornali. Perché, come forse non saprà il giovane leghista, la nazionale italiana under 15 di cricket è campione europea della divisione II. Con dedica particolare da parte del presidente della Federcricket (regolarmente affiliata al Coni, non pakistano, ma italiano), Simone Gambino, al leader della Lega Nord Umberto Bossi. La squadra azzurra, infatti, è composta quasi totalmente da figli di immigrati dallo Sri Lanka, Bangladesh, India e Pakistan. Se non è integrazione questa...

giovedì 25 marzo 2010

La Catania del 'Gabbiano d'argento'... riparte dal boom dei tredicenni della Roomy


C’era un volta una città alter ego della via Emilia del volley che correva lungo l’asse Parma-Modena. Era la Catania pallavolistica dei tempi d’oro, quella da dove era partito il Gabbiano d’Argento e che, ancora negli anni ’90, viveva riflettendosi nei successi giovanili della San Cristoforo Catania e nelle tante squadre che, dalla Pallavolo Catania di A1 fino alla B2, passando per la Playa Catania in A2, rinverdivano i fasti dello scudetto della Paoletti del campionato 1977/1978. Oggi Catania, dopo il tentativo naufragato della recente A2, è periferia del volley. Ma c’è ancora qualcuno che ci crede e tenta di ripartire da quel settore giovanile irrinunciabile se si vuole crescere.

Alla final-six della Boy League sono approdate, in mezzo alle corazzate Trento, Macerata, Falconara (allenata da Massimo Concetti che con la Paoletti vinse lo scudetto) e Padova, anche i milanesi della Vero Volley e gli etnei della Roomy Club, società che con i suoi 400 iscritti rappresenta uno dei più numerosi vivai siciliani. Ragazzetti di 13 anni, quelli della Roomy, che non immaginavano di poter arrivare alla fine di quest’avventura. Così come non lo immaginavano la società – per inciso nata nel 1978 sull’onda dell’entusiasmo dello scudetto della Paoletti – e i genitori che, per mancanza di sponsor e qualsiasi altro tipo di contributo, hanno messo mano al portafoglio per finanziare la trasferta per partecipare alla finale di Sestola in programma da oggi a domenica 28 marzo.

Ma i ragazzini della Roomy sanno di quale eredità sono depositari? «Assolutamente no. Già io che ho 30 anni ricordo appena quando a Catania giocavano Conte e Kantor – dice il tecnico Giovanni Barbagallo, figlio di due allenatori di pallavolo -. Comunque a me non piace vivere di ricordi, preferisco il presente, con la prima finale scudetto giovanile nella storia della Roomy, e l'organizzazione del futuro». Però, ammette Barbagallo «forse se io non fossi stato figlio dei miei genitori, testimoni di un passato importante, oggi non sarei qui a vivere di pane e pallavolo».

(pezzo pubblicato anche sul Corriere dello Sport del 25 marzo 2010)

Ps: la Roomy ha perso 3-0 con il Vero Volley Milano e giocherà la finale per il 5-6 posto. Va bene così, l'importante era esserci

mercoledì 24 marzo 2010

Una vigneron fuori dagli schemi




Il Vinitaly si avvicina. E quasi tutti gli attori (e i bevitori) del mondo del vino italiano si preparano all'annuale bevuta collettiva. Quasi tutti. Non ci sarà una delle produttrici che, fino a qualche anno fa, veniva annoverata tra le più giovani d'Italia, Arianna Occhipinti. Non so se adesso, alla soglia dei 28 anni, può definirsi anziana. Di sicuro, però, è cresciuta insieme con i suoi vini rigorosamente prodotti da uve coltivate con metodi biodinamici.




«Sono andata in vigna e in cantina per la prima volta a 16 anni con mio zio e ne sono rimasta folgorata. Ho capito che quello sarebbe stato il mio lavoro. Ho studiato viticoltura ed enologia a Milano e ho capito che non avrei mai usato tecniche da ricettario», mi raccontò quando la conobbi quattro anni fa.

«Io vivo nella vigna, mi piace potare, vivere con le mie piante… Pensare al vino, assaggiarlo, gustarlo, innamorarmi di 'lui', delle mille sensazioni, dei mille assaggi con l'emozione che si rinnova. Invece troppi vini, oggi, sono solo frutto di progetti studiati a tavolino, tutti senz'anima».

L'anima che c'è nei suoi vini nati sotto il sole di Vittoria, provincia di Ragusa, dei quali Arianna si prende cura tout-court: dalla terra (nella foto un paio di filari dei suoi vigneti) ai grappoli sulla pianta; dalla vendemmia all'imbottigliamento... fino al marketing aziendale che si estende negli Stati Uniti, in Giappone, in Francia, i paesi dove apprezzano di più i suoi vini, e non solo.



Andando a curiosare nel suo blog ho letto che il primo aprile a Catania farà una degustazione dove al Frappato, al Siccagno e all'SP68 (nome che si deve all'indirizzo della sua azienda agricola) affiancherà il 'Passo Nero', un passito di Nero d'Avola che ho avuto il piacere di assaggiare quando stava ancora in botte, e 'En primeur', un inedito bianco che, mi ha raccontato quest'estate, ha prodotto con un ceppo di uva bianca autoctona della quale non ricordo il nome. Un particolare trascurabile perché sarà insuperabile come il resto. La garanzia è data dal semplice fatto che abbia deciso di farlo assaggiare.

martedì 23 marzo 2010

«Piacere, il mio nome è HIV...»



- Signor Hiv come sta?

«Bene grazie. Nonostante non sia più un giovincello tiro avanti».

- Ma lei quanti anni ha esattamente?

«Ah che bella domanda…! Se fossi stato una donna non me l’avrebbe fatta, eeh?!...Comunque, ufficialmente, diciamo all’anagrafe, mi ha registrato il Dott. Robert Gallo il 23 aprile del 1984 , anche se dicono che abbia anche un altro padre putativo, il Dott. Montagnier. Francamente l’età esatta non me la ricordo, direi tra i venticinque e i trenta».

- Scusi se glielo dico, ma per la sua giovane età ne ha fatti di danni... Lei è un giovane serial killer...

«Beh effettivamente… Diciamo che mi sono dato da fare, anche se ormai ho perso il conto delle mie vittime, sa com’è, la matematica non è mai stata il mio forte ho sempre preferito chimica, biologia e criminologia».

- Ok, le rinfresco la memoria: nel mondo sono circa 40 milioni le persone infettate di cui oltre due milioni già decedute. E queste sono cifre sottostimate.

«Però, niente male! Ho fatto già un bel lavoretto!Ma nonostante ciò mi resta ancora molto da fare, ho parecchi margini di miglioramento un po’ ovunque, soprattutto in Africa, Asia, America Latina; poi ci sono buone possibilità di colpire maggiormente in America e in Europa. Insomma, come vede la mia guerra è senza frontiere e non guarda in faccia a nessuno: neri, bianchi, gialli, donne, uomini, bambini, poveri, ricchi…. C’è da divertirsi un mondo!»

- Forse qualche difficoltà superiore rispetto agli inizi della sua storia la incontra, no?

«Mmmhhh sì, effettivamente in alcune situazioni è diventata più dura. Penso per esempio a quanto era più facile quando non c’era quella maledetta cosa…. come la chiamate, “prevenzione”: preservativi, siringhe pulite e via dicendo proprio non li sopporto! E poi c’è quella iattura dell’informazione corretta e mirata che mi ostacola e mi rende tutto più difficile».


- Quindi si è fatto parecchi nemici?

«Eddai, è ovvio che cerchino di contrastarmi altrimenti vi spazzerei via tutti. Ma io non mi arrendo, anzi; poi posso contare su diversi alleati…»


- Tipo?

«Ora vuole sapere troppo, non sono così fesso da dirglieli!»


- Guardi che se non mi risponde chiudiamo subito l’intervista e non pubblico niente. Lei non avrà altre occasioni per finire in prima pagina.

«Ok ok, non faccia così… Non le dirò nulla di nuovo, in fondo. I miei alleati? La disinformazione e/o poca informazione, le condizioni di povertà e le scarse misure di profilassi, le campagne moraliste e gli integralismi religiosi, la discriminazione delle persone infettate, le politiche proibizioniste e punitive, le risorse minime per la ricerca, l’insufficiente e/o non efficace offerta di servizi sanitari e sociali accessibili a tutti, la mercificazione del sesso, gli interessi e i grandi profitti delle multinazionali farmaceutiche… Le basta?»


- Grazie, è stato molto esplicito. Mi farebbe l’identikit delle sue vittime in Italia?

«Come ho già detto, io non ho preferenze, colpisco indistintamente, certo è che oggi, soprattutto qui da voi i miei bersagli più facili sono i giovani che fanno sesso non protetto, soprattutto le donne. Con i miei amici (da voi volgarmente chiamati Infezioni Sessualmente Trasmissibili – IST) herpes genitale, epatite, gonorrea, sifilide, clamidia ecc… organizziamo dei bei festini! Si figuri che ad oggi ho già fatto 140mila sieropositivi e 3/4000 nuove infezioni l'anno non me le toglie nessuno! Andate in pace…».

Per gentile concessione di Gianantonio Toy Racchetti (Lila Catania) che coniuga in maniera (quasi) perfetta il suo pragmatismo milanese alla sua vita da catanese.

domenica 21 marzo 2010

Il Ponte sullo Stretto? Minitalia gioca in anticipo



C'è il Duomo di Milano e la Torre di Pisa, il campanile di San Marco e le Alpi. Il mare che lambisce le coste di cui si può sentire il rumore e pure il treno che dal nord porta al sud (è puntuale ma, in attesa del completamento della linea ferroviaria, l'ultima fermata è Taranto). Peccato sia tutto in miniatura perché siamo nel parco Minitalia di Capriate in provincia di Bergamo. Meta preferita di scolaresche provenienti da tutta Italia che, in un sol colpo, riescono finalmente a mettere a fuoco la morfologia dello Stivale (specialmente adesso che la geografia come si intendeva una volta latita dai programmi scolastici), Minitalia ha riaperto i battenti sabato 20 marzo dopo lavori di restauro che, recitano i comunicati, hanno riportato i mini-monumenti all'antico splendore. Splendore che, però, non si limita all'esistente ma allarga i suoi orizzonti a un futuro utopistico. Tra le vecchie glorie italiane, infatti, è comparso 'nuovo di zecca' anche il Ponte sullo Stretto. A campata unica come quello che, nelle intenzioni della società che ha avuto l'appalto dello sviluppo del progetto, dovrebbe unire le rive della Sicilia a quelle della Calabria. Per fortuna il 'ponte' è solo un'attrazione virtuale di un paesaggio che, ironia della sorte, mette in bella mostra - anch'essa nuova di zecca - pure una perfetta Salerno-Reggio Calabria. Forse sarebbe meglio cominciare da là. O magari dalle ferrovie o dalle autostrade siciliane. La tratta ferroviaria Catania-Palermo risale al 1865 salvo ammodernamenti vari ed eventuali; l'autostrada Messina-Siracusa-Gela progettata negli anni '60 deve ancora essere completata ma, nel frattempo, è stata inaugurata (così come la Messina-Palermo, nota come 'l'autostrada più inaugurata d'Italia') infinite volte nel solo tratto che da Catania porta a Siracusa finito soltanto nell'estate 2009. Beh... meglio non pensarci e farci un giro a Minitalia. Almeno lì hanno appena finito la manutenzione annuale.

sabato 20 marzo 2010

Volley solidale: a Monza per le famiglie Sma


A questo punto lo avrete capito. Sono una patita di pallavolo. E' uno dei tanti 'mondi' che frequento per lavoro. Ed è uno di quelli che preferisco. Beninteso non è che sia tutto rose e fiori, come dappertutto ci sono anche le spine. Ancora, però, tra quelli sportivi di massa (i tesserati del volley sono davvero tanti) è un mondo a misura d'uomo e di donna. Domani sarò al PalaIper di Monza per l'ultima di regular season dell'Acqua Paradiso Monza, squadra - anche questa forgiata nelle difficoltà - che, strada facendo, ha conquistato 'un' pubblico passando dalle trecento anime delle prime gare alle 3.600 attuali.

Domani l'ultima giornata della stagione regolare (gli avversari sono i campioni d'Italia di Piacenza) sarà dedicata alla solidarietà a favore dell'Associazione Famiglie Sma, genitori per la ricerca sull'atrofia muscolare spinale. I giocatori entreranno in campo tenendo per mano un bambino e chi vorrà potrà donare 2 euro acquistando una copia dei libri del tecnico-scrittore dell'Acqua Paradiso, Mauro Berruto. Un motivo in più per andare al PalaIper per continuare a seguire i brianzoli, o perché no, a fare la conoscenza con il mondo del volley.