venerdì 26 febbraio 2010

Baggio, Padre Pedro e i bambini di Andralanitra




Padre Pedro è un prete di origine slovena che ha costruito un villaggio sopra la discarica di Andralanitra in Madagascar. Ho conosciuto Padre Pedro leggendo un bellissimo libro di Mauro Berruto, allenatore di pallavolo che scrive - regalando emozioni - quando ha tempo. Padre Pedro è il protagonista di un ritratto che giace sereno a pagina 38 di 'Andiamo a Vera Cruz con quattro acca' (edizione Bradipo Libri). Padre Pedro incanta i bambini con il calcio e "insegna il Vangelo, ma solo dopo il calcio. Perché altrimenti i bambini andrebbero da un'altra parte", scrive Berruto che in Madagascar da Padre Pedro c'è stato davvero. "I bambini di Padre Pedro conoscono Gesù e Roberto Baggio; e se chiedi loro la differenza, ti rispondono che Gesù non avrebbe mai sbagliato un rigore in una finale del campionato del mondo".

Ieri ho sentito parlare Roberto Baggio. Di lui conoscevo i gol, così belli da poter essere raccontati come poesie, gli infortuni, quel rigore tirato in alto nella finale di Usa '94. Ieri ho sentito parlare un uomo, sereno e consapevole... che sarebbe felice tra i bambini di Padre Pedro.

Io il Baggio di ieri l'ho raccontato così per l'agenzia Italpress. E non me ne voglia Mauro Berruto se accosto una mia cronaca al racconto di Padre Pedro.



MILANO (ITALPRESS) - “Quando giocavo il mio desiderio era far divertire e far sognare”. Un compito che gli riusciva divinamente. Tanto da rimanere nell’immaginario collettivo, da Caldogno, provincia di Vicenza, dove è nato 43 anni fa, al più recondito luogo del mondo dove esiste una palla che rotola, come ‘Divin Codino’. Oggi Roberto Baggio è uscito dalla “sua scelta intima di riservatezza”, fatta perché “ho sempre considerato superficiali i riflettori e creduto che sia meglio parlare poco e bene”, per la celebrazione che gli è stata tributata da Gazzetta dello Sport che, in collaborazione con Rai Trade, proporrà dall’1 marzo ‘Io che sarò Roberto Baggio', una raccolta di 10 dvd che ripercorrono la vita di un “monumento nazionale”, come lo definisce il presidente della Rai, Paolo Garimberti. Pantalone grigio scuro, camicia bianca, giacca in velluto nero e sciarpa grigia a quadri neri, Roberto Baggio è il ritratto della serenità, anche dialettica (“Tifo per tutte le squadre con cui ho giocato”, “Agnelli, Berlusconi o Moratti? C’è stima per tutti, ho voluto bene tutti alla stessa maniera”, “Il miglior giocatore di ieri e di oggi? Non mi pare giusto parlarne”. Sorvola soltanto su Mourinho. A chi chiede da chi vorrebbe essere allenato tra Guardiola, Prandelli, Leonardo o Mou risponde: “Guardiola, Prandelli e Leonardo li stimo come allenatori e come uomini” dimenticandosi del tecnico interista), che contraddistingue le sue parole che, per una volta, fluiscono. Dagli infortuni da affrontare “con l’arma del coraggio per uscirne vincitori anche sul piano personale” affinché si trasformino “da sfortuna in un trampolino di lancio”, al buddismo che “ho avuto la fortuna di conoscere a 20 anni e che mi ha aiutato ad affrontare problemi e sofferenze trasformandole in un valore”. Dei cinque minuti di immagini proiettate in anteprima, prima del bagno di folla serale che lo attenderà al cinema Arcobaleno di Milano, più delle immagini dei gol rimangono impresse le parole di Luca Toni, suo compagno al Brescia: “E’ la persona più umile che io abbia mai conosciuto”. Non è, però, solo umiltà quella raccontata dai molti ospiti della sala Buzzati del Corriere della Sera, dove è stata presentata l’opera dedicata a lui dedicata. Parlano Gino Corioni, il presidente del suo addio al calcio, l’ultima delle otto squadre in cui ha giocato; Renzo Ulivieri ed Arrigo Sacchi con cui ha avuto screzi noti, al Bologna e in azzurro; Gigi Maifredi e Franco Baresi, il vecchio compagno di squadra al quale Baggio darebbe, così come a Maldini, il suo Pallone d’Oro; Teo Teocoli, che confessa di non essere mai riuscito ad odiarlo nonostante i suoi due gol fatti al Milan al suo esordio in viola, ed Enrico Bertolino; Adriano Galliani che svela un retroscena dei tempi del suo passaggio alla Juve. “Nel 1990 era già del Milan, ci eravamo inseriti positivamente nella trattativa tra la Juventus e la Fiorentina – racconta l’ad rossonero -. Poi chiamò l’Avvocato invitando Berlusconi a Torino e ci chiede di lasciarlo a loro visto che noi avevamo già vinto tanti trofei”. Quello dalla Fiorentina alla Juventus, insieme a quello precedente dal Vicenza alla Fiorentina, ammette Baggio “sono stati gli unici trasferimenti che mi sono passati sulla testa, le altre squadre le ho scelte io”. Anche se la tentazione di smettere lo ha sfiorato spesso prima di quell’ultima apparizione a San Siro, con la maglia del Brescia, il 16 maggio 2004. “I dolori non mi abbandonavano mai, era un fastidio non potermi allenare allo stesso ritmo dei compagni. Ogni fine stagione volevo smettere e solo grazie al mio manager (Vincenzo Petrone, ndr) che mi stimolava ho continuato fino a 37 anni. Ma quando sono entrato nel tunnel il giorno dell’ultima partita non avevo un solo rimpianto perché avevo dato tutto”, afferma il Divin Codino. Nella sua vita il rimpianto è uno solo, “quel Mondiale ’94, giocarlo in 5’ di rigori è un delitto. Credo sia più accettabile una sconfitta sul campo, in 90’ o in 120’”. Infine si dissocia dal razzismo imperante sui campi (“Non vedo perché la gente rifiuti di capire che siamo tutti legati dallo stesso destino”) e rivela che si interessa ancora di calcio – “Seguo il campionato argentino e i giovani” – e che potrebbe fare l’allenatore: “Potrebbe essere una sfida che potrei prendere in considerazione, anche se dal divano di casa sembra tutto semplice e poi allo stadio non lo è”. MCA (ITALPRESS)

venerdì 19 febbraio 2010

Vancouver 2010: io sto con Arianna



dal sito www.francescofacchini.it

Guardo la faccina di Arianna e penso che questi Giochi Olimpici invernali ripropongano con la consueta virulenza un problema ormai assurdo del nostro sport. Di ragazzi come lei ce ne accorgiamo soltanto ogni quattro anni, ma nel frattempo non sappiamo nemmanco dove siano e di che cosa campino.

Per continuare la lettura...

martedì 16 febbraio 2010

Via Padova... questa sconosciuta



Della zona di via Padova, a Milano, conosco la parrocchia San Giovanni Crisostomo di via Cambini. Mia figlia per un paio d'anni ci ha frequentato il gruppo scout Milano68. E nel quartiere, come è d'uso tra gli scout, bambini e ragazzi del Milano68 andavano in giro per offrire torte e manufatti per finanziare il gruppo. Quello di via Padova è un quartiere multietnico. Solo che multietnico non significa 'ghetto'. A meno che qualcuno non permetta che questo accada. Come? Non favorendo l'integrazione. Isolando chi è diverso. Facendo poco per lo sviluppo della legalità. Legalità che non ha colore, né nazionalità. Come l'illegalità. E illegalità non fa rima con clandestinità. A patto di non voler seguire la scellerata equazione clandestino=delinquente introdotta da legislatori folli che hanno dimenticato che l'Italia, prima di essere terra d'immigrazione è stata terra di emigranti. Di mantenimento della legalità dovrebbero occuparsi le forze dell'ordine, prima che le situazioni si incancreniscano. E in via Padova, dove le bande sudamericane e gli spacciatori (entrambi da catalogare tra i reali problemi di ordine pubblico) sono una realtà che necessitava di attenzione ben prima che l'omicidio di un giovane egiziano che si tende a dimenticare, facesse scoppiasse la guerriglia urbana.



Ma torniamo in via Padova. Dove vive tantissima gente onesta: italiani, egiziani, marocchini, cinesi, sudamericani e chissà quanta altra gente di svariate nazionalità. Che magari saranno clandestini ma nulla più. E' in via Padova che nata l'Orchestra di via Padova (foto), composta da musicisti professionisti italiani e stranieri che, per i motivi più diversi, hanno attraversato la zona compresa tra via Padova e viale Monza. In via Padova c'è l'istituto comprensivo 'Casa del Sole' del Parco Trotter dove oltre la metà dei 900 alunni iscritti hanno cittadinanza non italiana e dove ieri è partito un laboratorio di scrittura creativa per bambini.

Anche questa è via Padova, un luogo di convivenza civile e di integrazione possibile.

sabato 13 febbraio 2010

La morte non è spettacolo


Impossibile non rivolgere il pensiero alle Olimpiadi di Vancouver che si sono aperte ufficialmente qualche ora fa. E non per la cerimonia che Sky Sport sta proponendo a rullo, ma per la tragedia della morte del georgiano dello slittino, Nodar Kumaritashvili. Tragedia che - per ovvie e condivisibili ragioni - non ha sconvolto l'architettura della cerimonia d'apertura. Il ricordo del 21enne è stato affidato alla sua squadra che ha sfilato col lutto al braccio tra gli applausi commossi dei 60.000 del BC Place. A far pensare, invece, è la riproposizione macabra dell'incidente che ininterrottamente in tanti continuano a far vedere, in video (sul sito olimpico di Sky c'è addirittura un link) e in foto. Sono immagini che non aggiungono niente alla notizia. Non siamo in guerra, non c'è alcunché da capire, niente su cui indagare, nessun insegnamento da trarre dalle immagini di un ragazzo che muore per amore del suo sport. Solo una spettacolarizzazione della morte della quale nessuno può sentire l'esigenza. Piuttosto sarebbe bello ricordare Nodar con la sua faccia concentrata prima della discesa per la quale non pensava di dare la sua vita.